di Angela Migliore

La goccia cade una volta, non la sento.
Cade ancora insieme ad altre, sulla mia testa.
Il rumore diventa una musica, mi accompagna mentre cerco con le mani sprofondate nella terra bagnata. Scavo e tiro su fango, non c’è altro.
“Dove sono andati?” dice una voce.
Un flash illumina improvvisamente la stanza, per poco.
Il tempo di svegliarmi e ogni cosa ricade nuovamente nel buio. Con gli occhi aperti a fatica sento la stessa voce che stavolta cambia tono: “Chi è che ha bussato?”.
Tutto, la voce e il rumore della pioggia, mi riporta alla realtà ma non mi rassicura. Una fitta al petto mi ricorda quello che avevo provato un minuto prima, nel sogno. La perdita, la paura e il disorientamento.
“Mamma non c’è nessuno”. Provo a rispondere per rassicurarla, sapendo già che sarà inutile.
“Io ho sentito che stavano bussando”. Insiste lei.
La luce è accesa di nuovo e stavolta sono completamente sveglia, il ciuffo arruffato di capelli bianchi che le incornicia il viso, è arrabbiato più di lei che mi sta fissando. “Dai mamma torna a dormire che domani mi devo alzare presto”. Niente da fare, dopo un quarto d’ora siamo una di fronte all’altra, con una tazza di camomilla ciascuna, un rito che si ripete da tre anni, da quando si è trasferita da me.
La goccia cade ancora.
La speranza di riaddormentarmi è svanita, così come quella di farle prendere un calmante.
“Ma dimmi, dove sono andati tutti?”. Lo dice stringendo i pugni. Mi fissa ancora e accompagnando una risposta immaginaria, muove le sue mani una sull’altra mimando il movimento di qualcosa che ha iniziato a tornare indietro. Io le osservo, le conosco bene quelle mani. La fede al dito troppo larga e la cicatrice sull’anulare storto. Sono le stesse mani frenetiche che mi aiutavano a vestirmi, a fare i compiti alle elementari, e le versioni di latino al liceo. Quelle che si muovevano veloci sul foglio delle presenze quando insegnava a scuola, quando si occupava della casa, di me e di mio padre. Ora si ripetono in gesti lenti, simbolici, parlano una lingua sconosciuta, cercano un ordine che non c’è più.
Mi giro a guardare la finestra, quella con le tapparelle rotte, la goccia è sempre lì, scende fluida sul vetro e mi ricorda quel giorno di tanto tempo prima quando tutto è incominciato: lei abitava ancora con mio padre alla casa al mare, dove sono cresciuta. Ero lì per qualche giorno per stare con lei che era convalescente da una malattia esantematica.
“Diluvia”. Dissi ad alta voce. Lei, come faceva sempre in questi casi, si era messa in movimento: temeva che l’acqua allagasse la terrazza. Non riusciva a stare ferma. Le dissi di aspettare che tornasse mio padre e si occupasse lui della terrazza. Ma lei si affannava a prendere il secchio e lo straccio.
“Ci vado io”. Cercai di convincerla.
“Tu non puoi bagnarti”. Rispose asciutta, con quel suo solito tono sicuro. A malincuore mi ritirai come una bambina a cui è stato fatto un rimprovero, mentre lei con un piumino in testa correva fuori con la pioggia sempre più forte.
Raccoglieva l’acqua con lo straccio, che strizzava nel secchio e poi ricominciava da capo.
“Lo vedi, guarda come è salito”.
“Ma no mamma, non è così preoccupante, è solo più forte la pioggia. Torna dentro che tra un po’ finisce”.
“Se aspettiamo ancora ci allaghiamo e il condominio ci fa causa”.
“Non esagerare, è solo un po’ di pioggia, mamma”.
“Vai dentro che prendi freddo”.
Malvolentieri tornai dentro, forse in altre circostanze non l’avrei ascoltata e sarei andata al suo posto, ma non quella volta, non potevo: non stavo bene, avevo la varicella. Ero su una sedia, un giacchetto sul pigiama per proteggermi dal freddo che arrivava attraverso la porta aperta, così solo per continuare a guardarla, almeno da lontano.
Borbottava qualcosa, ma io sentivo solo il rumore della pioggia, il livello dell’acqua si stava alzando e aveva ragione, la terrazza era diventata una piscina.
“Ma ci sarà qualcosa che ostruisce lo scarico, altrimenti non si spiega”. Le gridai sovrastando il rumore. Mentre parlavo, già trafficava con uno stura lavandini nell’imbocco dello scarico, la mia paura era cresciuta, era tanto zuppa da farsi venire una polmonite, e io non potevo fare nulla.
Tornò dentro, la aiutai a cambiarsi. Era stanca, priva di forze.
Prima i pantaloni poi il maglione, le tamponai i capelli con un asciugamano. Era come imbambolata, notai, i gesti erano lenti e gli occhi fissi.
“Ci sono riuscita, l’acqua ora passa bene”. Mi disse orgogliosa. Con un sorriso felice mi guardava e continuava ad asciugarsi i capelli, poi cambiò espressione. L’avevo fatta sedere sul letto, per riprendersi. Il viso scuro, mi guardava con preoccupazione. Pensai che era rimasta senza forze, era colpa mia se si era bagnata, non l’avevo aiutata. Poi a un tratto, mentre continuavo a fissare quell’espressione interrogativa, mi disse: “Che hai fatto sul viso?”.
“Cosa?”. Risposi io, non capendo a cosa si riferisse.
“Sul viso, che sono tutte quelle bolle?”.
“Stai scherzando mamma?”.
“No, che ti è successo?”
“Non ti ricordi più che ho la varicella?”. Dimenticava il fatto che ero a casa dei miei per quello: mentre lei era in via di guarigione dall’Herpes Zoster e insisteva che l’andassi a trovare almeno nel weekend, e così avevo fatto, mi aveva attaccato la varicella, non pensando che la varicella, era l’unica malattia esantematica che non avevo avuto da bambina.
“La varicella?” Continuando ad alta voce: “Non mi ricordo. Ma io che ci faccio qui, perché sono sul letto?”.
Dopo venti minuti era ancora nello stesso stato e decisi di chiamare il 118. L’ambulanza arrivò dopo un quarto d’ora circa, e poco prima anche mio padre, che insisteva dicendo che non c’era bisogno di chiamare nessuno, tanto le sarebbe passato.
Se la portarono via in stato confusionale, perdita di memoria da shock.
Dopo quello, altri episodi più lievi e la diagnosi del dottore: una parolaccia, che le faceva stridere i denti e che lei non voleva sentire.
Ora le mani si sono placate un po’, la camomilla ha fatto il suo effetto. Mi guarda e ricomincia il discorso di prima. “Allora non deve venire nessuno?”.
“Nessuno mamma, siamo solo noi”.
“Ah e mia mamma dov’è?”.
“Nonna non c’è”.
Ora non risponde, gli occhi cercano risposte. Si gira ad osservare la stanza. Due punti nocciola spenti, lattiginosi, l’osservazione senza l’acume di un tempo.
“Ma dove siamo?”.
“A casa mamma, sei venuta ad abitare con me, ti ricordi?”.
“Ho capito, non lo sapevo”.
Mentre parla, tira fuori la molletta che ha sempre in tasca, che le sembra una chiave. Per usarla all’occorrenza, cioè farla fuggire da questo luogo sconosciuto. Stavolta la osserva senza dire nulla e se la rimette in tasca, silenziosa e furtiva. Si gira per vedere se sono stata attenta, mi aspetto che da un momento all’altro se ne esca con un “Signora ma lei lavora qui?”, ma stavolta no e a me scappa un sorriso. La osservo ancora, trasformata in un’essenza e in quell’essenza ha un nuovo modo di comunicare e attaccarsi alla vita. Il mondo che la circonda alle volte è un nemico, alle volte è soltanto uno sconosciuto, e io non la biasimo, per la malattia, in fondo penso la stessa cosa. Se smettessi di illudermi di conoscere il mondo che ci avvolge, lo vedrei per quello che è in realtà, uno sconosciuto con cui confrontarsi ogni giorno. E’ una bambina, poi un essere selvatico, rimasto intrappolato in un corpo. Alle volte ferisce sé stessa e chi le sta vicino. Come una fiera morente vuole solo scappare per trovare pace. Quando succede, io aspetto, e aspetto ancora che arrivi fino all’apice, quando il respiro diventa veloce e un rumore profondo l’accompagna, per poi discendere ed esaurirsi lentamente fluido come una goccia che si scioglie. In quei momenti non provo più nulla, il dolore al petto si placa ed è in grado di sorprendermi ancora. Quando ho perso tutte le speranze di ritrovarla, mi guarda sollevata e mi fa un sorriso.
“Bella di mamma, grazie”. Mi dice, sembra tornata.
“Ma che cos’è quel bussare?”. La goccia cade e scivola ancora, libera senza ostacoli.
Le prendo le mani e gliele stringo forte, il silenzio riempie il vuoto che ancora sentiamo dentro e fa ancora più male.
“E’ solo un rumore ma passerà”.