di Alice Valerio

È il 24 giugno di questo anno balordo, per lo meno più sciocco e più stupido degli altri, e, oltre al covid che continua a tormentarci da due anni e mezzo, a cui si è aggiunta la guerra in Ucraina, arrivano notizie sconcertanti dagli Stati Uniti: la Corte Suprema ha abolito la sentenza che garantiva il diritto a interrompere la gravidanza a livello federale.
Nel 1978 ero solo una bambina di 8 anni, quando il 22 maggio venne approvata la legge 194. Legge attraverso cui veniva riconosciuto alle donne il diritto di abortire. Ricordo bene quella TV in bianco e nero, dove più volte avevano trasmesso notiziari che riprendevano donne che manifestavano il loro diritto di decidere sul proprio corpo. Quella frase “il corpo è mio e decido io” divenne un mantra nei primi anni del liceo, lo ricordo bene. Forse a quei tempi non mi rendevo conto di quello che realmente stava succedendo, vedevo attraverso lo schermo solo delle donne che in massa avanzavano verso le piazze per far valere i loro diritti, contemporaneamente pensavo alla forza che trasmettevano quei cori. Mia madre, donna dall’animo profondamente maschilista, in quelle occasioni, nonostante il suo arrivo a Roma non coincidesse con la lotta femminista, amava professarsi tale. Solo nel 1987 mi resi conto quanto furono efficaci quelle lotte. Quell’anno per me fu cruciale: riuscii a divincolarmi dalla morsa genitoriale, avevo 17 anni e tutta la determinazione di uscire dal guscio e fare nuove amicizie, contravvenire al canone bigotto dei miei genitori. Ebbi la presunzione di frequentare un gruppo di ragazzi più grandi di me, che avevano storie e vissuti diversissimi da me e proprio per questo mi attraevano. Andrea era uno di loro e dopo qualche tempo persi la testa per lui. Lavorava nell’attività di famiglia e occasionalmente mi concedeva la sua compagnia: era circondato da un alone di mistero e fu proprio quello a incuriosirmi. Ci frequentammo per un po’, fino a quando decisi di concedermi completamente e di perdere la mia verginità con la persona che in quel momento pensavo fosse il mio grande amore, il ragazzo che in qualche modo mi avrebbe resa una persona diversa dal modello di donna preconfezionata che i miei genitori tentavano di farmi essere. Non ricordo molto dei mesi che precedettero quella che negli anni a seguire definii come “la tragedia”. Lui era il ragazzo più grande e più esperto, che sapeva come comportarsi in ogni situazione.
Ingenuamente mi fidai di lui, soprattutto quella volta in cui decise che l’avremmo fatto diversamente. Aveva dipinto il soffitto della sua camera di celeste e a renderlo più vero c’erano disegnate delle nuvole bianche, un pretesto per fare l’amore in modo che io mi mettessi sopra, non ci trovai nulla di diverso, ma farlo in quel modo significava per me dargli piena fiducia nel gestire il rapporto sessuale. C’era la nostra canzone in sottofondo ed eravamo molto coinvolti. Quel giorno ci spingemmo a praticare il coito interrotto: così i nostri genitali toccandosi avrebbero potuto raggiungere una sfera più alta del piacere. Lui esperto millantatore, tradì del tutto la fiducia che avevo. Continuavo a dirgli di avvisarmi, ma nel momento clou non lo fece e l’eiaculazione avvenne dentro di me. Lui che avrebbe dovuto controllarsi, non lo fece, non ci provò nemmeno, non ci fu nessun cenno, nessun tentativo di farmi sollevare da lui. Capii che il suo fu un gesto meschino, insulso, abusante e dal suo sorriso beffardo ebbi la conferma che fu fatto apposta. Inutile ripensare ai miei perché, l’imbecille non provò nemmeno a scusarsi, il suo viso aveva l’espressione soddisfatta di chi aveva raggiunto ciò che voleva: un rapporto completo, infischiandosene delle conseguenze, che naturalmente sarebbero ricadute solo su di me. All’idea fui colta subito da un attacco d’ansia, da quel momento iniziò un incubo. Quaranta giorni dopo ebbi la conferma di quello che stavo vivendo e mi resi conto che non era un brutto sogno, ma l’inizio di un dramma. Il test confermò che ero incinta. Lo stress era alle stelle e mi muovevo in uno stato crepuscolare. Il nostro rapporto da quel giorno iniziò a cambiare, la mia fiducia per lui era completamente scomparsa, speravo solo di riuscire a farmi aiutare in un momento così difficile, poiché ero sola, non ne potevo parlare in famiglia. Figuriamoci: una famiglia di emigrati del sud, la cui convinzione era che la donna dovesse presentarsi al matrimonio illibata. Non solo i miei provenivano da un paese dove ancora esisteva il matrimonio “riparatore”, io stessa ne avevo visti di matrimoni combinati in quel paese “per salvare la faccia”. Questa era un’espressione che spesso sentivo pronunciare a casa mia. Ma non era solo questo a preoccuparmi. In realtà sapevo benissimo che a Roma nessuno avrebbe potuto indurre qualcuno a sposarmi “per riparare al danno”. Qui la situazione era diversa: non c’erano i parenti a cui dover rendere conto, il ragazzo poi era romano, non conterraneo, sarebbe stato impossibile obbligarci a sposarci. Eppure la mia preoccupazione più grande fu un’altra: non potevo permettere che mio figlio o mia figlia nascesse e crescesse in un ambiente bigotto, giudicante, e a volte maltrattante, di cui ogni giorno subivo gli effetti. Non avrei mai permesso che un altro essere umano, come me, crescesse infelice, ghettizzato, solo perché a casa regnavano ignoranza e grettezza. Non avrei permesso che una creatura indifesa, senza nessuna colpa, potesse subire insieme a me, un calvario che conoscevo bene, con l’aggravante che prima o poi avrebbero persino potuto dire di lui “il bastardo” o di lei “la bastarda”.
Alla notizia che aspettavo un bambino, Andrea si dileguò, anzi a dicembre seppi che si fidanzò con un’altra, a cui raccontò tutto quello che stavo vivendo, senza un briciolo di tatto. Anche gli altri di quel gruppo di cui mi ero voluta sentire parte, mi ignorarono completamente, come se non fossi mai esistita. Senza alcuna amica e nessun confidente o sostenitore morale, rimasi sola ad affrontare “la tragedia”.
Sentivo che in tutta quella terribile vicenda la strana ero io, mi sentivo sola, estraniata da una realtà che stavo subendo con una grande sofferenza, ma nonostante tutto riuscii a reagire. Mi resi conto che ero una minorenne sola ad affrontare una situazione molto più grande di me. Il tempo passava e io cercai di reprimere tutte le emozioni negative del momento per non perdere di vista la data ultima per poter abortire: il 30 gennaio 1988. Cercai disperatamente il consultorio familiare che avevano spostato in una zona più lontana da dove abitavo, e lì trovai una premurosa assistente sociale che mi disse come avrei dovuto muovermi per poter abortire. La cosa più triste di questa vicenda fu per me il non potermi aprire con nessuno della famiglia, lo dissi solo ad una mia carissima amica del liceo. Mi aiutò prestandomi un libro che feci vedere a mia madre dicendo che lo avrei acquistato da lei a metà prezzo, un tomo, dal costo di 70 mila lire. Dopo aver ricavato giusto la metà di quei soldi, restituii il libro, e non a tasche vuote mi recai verso il tribunale dei minori. Mi ero convinta che l’aborto avesse un costo, non so perché, ma certo non potevo girare per la città senza soldi. Ero arrivata davanti all’aula del tribunale dove un giudice avrebbe deciso per noi minori. A turno, attraverso un colloquio avrebbe capito se volevamo abortire per nostra volontà o se costretti da qualcun altro. In quel momento provai una forte ansia, anche se tutti gli altri erano in compagnia di un fidanzato, di un familiare, o di entrambi. Un brivido di terrore mi pervase: e se il giudice non mi avesse capita? Pensai. Sarei sprofondata sempre di più in quella melma da cui già ero coperta, senza possibilità di risalita. Ripetei a me stessa: io devo abortire, non ho altra scelta. Invece vedendomi da sola il giudice capì, ribadii che quello che stavo per fare era ciò che volevo, senza incertezze o ripensamenti.
A casa generalmente cercavo di comportarmi come al solito, inosservata, per quanto mi era concesso, l’unica cosa che riuscii a fare per non insospettire mia madre fu quella di farle trovare degli assorbenti sporchi di sangue ogni volta che doveva arrivarmi il ciclo. Agevolata dai contenitori per assorbenti usati nel bagno delle femmine a scuola, ne prendevo uno a caso e lo facevo trovare in bella vista nel nostro bagno, solo così riuscii a tranquillizzare mia madre sulla regolarità del mio ciclo mestruale.
Il giorno arrivò, era il 23 gennaio del 1988, quando in un ospedale di Roma con grande dispiacere, ma allo stesso tempo con gran sollievo, estrassero l’embrione dal mio corpo. Era finita. Mi rimase un forte stress post traumatico: da quel momento infatti iniziai a sentirmi diversa, un’altra me, diffidente, evitante, che aveva imparato a odiare. Negli anni a seguire il desiderio di rimanere incinta e avere un grosso pancione non mi abbandonò fino al 2001 quando ebbi il mio primogenito, per poi riaffacciarsi prepotentemente, perché desideravo ardentemente una figlia e non arrivava. Mi ero convinta che quell’essere sarebbe stato femmina. Nel 2012 nacque finalmente la mia secondogenita: fui la donna più felice del mondo e il rancore per quella persona e per la cultura da cui provenivo si spensero completamente.
Fino alle notizie del giugno scorso, che hanno riacceso il dolore mai cancellato di questa vicenda. Non rimpiangerò mai quello che ho fatto perché questa triste storia ha una sola risposta: per salvare due vite non potevo fare altro che abortire. Sarò per sempre grata a quelle donne che in passato hanno lottato per me, per noi, e spero ancora per altre generazioni future, perché grazie a loro mi sono salvata e ho avuto la possibilità di poter scegliere. Non nego che i sensi di colpa abbiano tentato di scavare una fossa nel mio animo, ma senza mai riuscirci. Non dimentico i decenni antecedenti alle nascite dei miei figli: ogni anno con una certa tortura valutavo l’età del figlio mai nato. Ma erano ormai dieci anni che non la contavo più. Oggi a causa di questa notizia mi è tornato tutto in mente, il mio dolore si è rinnovato, così anche la rabbia soprattutto perché se questa nuova situazione si dovesse diffondere, avremmo tante morti femminili a causa degli aborti clandestini.
Lui o lei oggi, se in vita, avrebbe 34 anni. Un uomo o una donna, un primogenito che, se fosse nato avrebbe reso tutti gli altri figli e cugini dei secondi, quindi privi di quei privilegi assegnati dalla cultura meridionale: è così che a volte mi viene da pensare.
Ciao amore mio.
Un racconto intimo, potente .
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