di Paola M.C. Fasano

Un’amica, mentre prendiamo un tè e parliamo di paure e di sogni, mi chiede: ma tu, ce l’hai un progetto? Balbetto: sì, certo, o forse no.
Tentenno. Devo guardarmi dentro. Sicuramente devo averlo, da qualche parte.
La sera, è la sera che mi frega, mi macero nella mia perplessità. Il silenzio è il terreno dei ricordi, è abitato da visi, parole, fatti. Non si scappa. Magari si può mentire a un’amica, ma a se stessi no. Mi viene spontaneo lasciare il divano, spegnere la televisione, girare per casa mettendo in ordine, sistemando i cuscini, i fogli sparpagliati sulla scrivania. Ho bisogno d’aria, di fiducia in me stessa. Vado sul balcone, guardo in giardino e noto chi va e chi viene e mi dico che finirò come quella del terzo piano, una vedova con i capelli stopposi per la tintura fatta in casa, sempre dietro le finestre; un giorno l’ho vista passeggiare con il deambulatore e ormai non c’è più da un bel po’.
Insomma devo reagire, mettermi in tiro, fare un salto in centro. Il progetto verrà, prima o poi. Temo poi, perché dovrà sostituirsi al disinteresse verso il mondo che mi sta diventando sconosciuto, tutto va in fretta, il tempo scivola nella clessidra e io non so riempirlo di aspettative.
Non ho un progetto. Un pomeriggio, avevo organizzato una festicciola di compleanno per un nipote che compiva una manciata di anni. Aveva spento le candeline su una torta di cioccolato e aveva riso quando avevo stonato cantandogli Happy Birthday. L’ho guardato con occhi lucidi e una sensazione di caldo al cuore. Lui, mi sono detta, di progetti ne ha tanti, come è giusto alla sua età. Mi guardavo in giro, vedevo tutti in uno specchio imparziale, un nemico memore di immagini passate e ho capito che non mi piacciono più le feste in famiglia perché ora mi offrono la sedia più comoda e mi ripetono: non alzarti, ci pensiamo noi, riposati. Sono ridotta così male? mugugno facendo finta di niente, ricordandomi quando i miei nonni mangiavano la pastina alla sera e andavano a letto con le galline. Mia nonna aveva sempre freddo e portava uno scialle all’uncinetto che mollava solo a maggio. Mio nonno aveva la dentiera e non se ne vergognava quando non riusciva a masticare e, se capitavo nel loro bagno la mattina, la vedevo nel bicchiere sulla mensola della finestra.
Non ho un progetto. L’ho mai avuto? Me lo chiedo da quando cerco dentro di me, fuori da me. Andiamo per ordine. Sono nata una mattina di marzo di tanti anni fa nel centro storico di una città longobarda dalla quale sono scappata presto perché mi andava stretta e io volevo studiare in un’università famosa dove pensavo che mi avrebbero rivelato chissà quali cose. Il desiderio di indipendenza mi ha spinta a trovarmi un lavoro e ce l’ho fatta perché erano tempi in cui, quando comperavi Il Corriere al venerdì, tra gli annunci, di lavori ne trovavi parecchi e poi sceglievi chi pagava di più, chi ti dava più prospettive. Ero diventata una studente-lavoratrice e me la cavavo bene. Poi mi sono sposata al volo, troppo presto, e sono andata ad abitare molto lontano. Ho cambiato residenze e paesi, ho fatto valigie e pacchi, bauli e scatoloni.
Dunque, ce l’avevo un progetto, ma allora lo chiamavo: desiderio di scoprire, di conoscere gente e lingue, di mettermi alla prova. Non avevo tempo per domande, afferravo le occasioni o seguivo l’opportunità di altri, ero la ruota di scorta, affidabile, pronta in caso di danno.
Non ho un progetto. E quando ho messo al mondo il primo figlio, comprato un appartamento e il mio stipendio copriva appena la rata del mutuo? Dove erano i dubbi, le incertezze, allora? Correvo, lavoravo con entusiasmo anche quando la sede del lavoro era lontana ed ero una pendolare con una borsa con dentro un libro e l’uncinetto per fare la copertina del lettino. La mattina partivo da casa con una bici che lasciavo alla stazione delle corriere per prenderne un’altra all’arrivo e andare in ufficio. Nebbia. Gelo. Zanzare. Le giornate correvano fitte di rumore di traffico, di voci di colleghi, di telefonate per controllare che a casa tutto filasse. Un salto dal salumiere, una cena affrettata, tante chiacchiere e confidenze. Il giorno dopo ricominciavo con altrettanta determinazione, pensando al domani, al maglione nuovo che mi meritavo, al cinema, alle ferie. Vita normale, senza domande, ripensamenti perché non puoi mollare. E vai avanti e corri dietro a tutto quello che ti capita. Almeno ci provi.
Poi un giorno le candeline sulla tua torta sono tante, ti ci vuole l’aiuto di qualcuno per spegnerle tutte.
Dovrebbero abolire le mense aziendali. È attorno ai tavoli imbanditi di pasti riscaldati che, tra colleghi, si fanno pettegolezzi, si critica chi fa carriera magari per certe amicizie affettuose, si parla del desiderio di andare in pensione, finalmente liberi. C’è chi conosce un tale che lavora all’INPS, sa orientarsi nel mondo delle circolari ministeriali, cose del genere.
Per farla breve, decido di riscattare gli anni universitari, pago un pacco di soldi e vado in pensione alquanto presto. Che miracolo, che figata! dormirò al mattino quanto vorrò, non dovrò più occuparmi di pratiche noiose, addio alla ripetitività del lavoro burocratico, al badge. Ora farò viaggi, sarò libera.
E di viaggi ne ho fatti parecchi. Su e giù con Ryanair, che sia benedetta, compagnia economica e puntuale. Ho fatto la nonna volante. C’era bisogno di occuparmi di un nipotino? Arrivavo. I genitori giovani, ma stressati, volevano prendersi una vacanza? Arrivavo: valigia minimalista, solo lo stretto indispensabile.
Non avevo dovuto subire una selezione, andavo bene così come ero: una babysitter riottosa, ma disponibile in caso di necessità. I nipoti erano la mia gratificazione, a loro leggevo i libri che avevo amato da bambina, raccontavo storie inventate, recitavo personaggi paurosi perché volevo divertirmi anch’io. Così andavamo a cercare lo spettro dietro le tende, ascoltavamo i passi misteriosi sulle scale, trovavamo il cioccolato nascosto dietro la scatola del cucito.
Era dunque un progetto, il mio? Ora che ci penso, non saprei dirlo. In me, a mia insaputa, si era sistemata una persona nuova, una che guardava indietro nella sua infanzia e voleva tramandare i suoi ricordi perché avevo tanto da raccontare. Erano vere favole i miei giocattoli, la mia vita in campagna, le scoperte fatte nel solaio, il nonno burbero, la nonna ottima cuoca, il papà che mi faceva regali preziosi, e la scuola, i brutti voti e quelli belli, come mi vestivo, i fidanzati. Mi sono cimentata con la scrittura di certi racconti solo nostri, delle nipotine monelle e della loro nonna inconsueta, li ho arricchiti di disegni, li ho impaginati, ne ho fatto un libricino di cui ero fiera. Forse tutto questo potrei definirlo un progetto.
Adagio adagio, senza rendermene conto, i capelli si sono colorati di grigio. Ingrano la marcia indietro, metto il freno. La mattina mi alzo con certi dolori alle ginocchia, al collo, ovunque. Ecco, ci siamo, sono diventata una persona fragile, come dicono quelli che non osano adoperare la parola vecchia. Ma io ci scherzo sopra, racconto di aver imboccato il viale del tramonto, come Norma Desmond, con una Jaguar color verde scuro, con i sedili in pelle bianca e il cruscotto in legno di ciliegio. Le amiche della mia età ridacchiano: Eh, mia cara, cosa credevi, di essere esente dagli acciacchi?
Non mi rassegno, faccio fisioterapia, combatto. Invano. Mi viene in soccorso il divano che accoglie la mia malinconia. Ormai ne sono convinta, mi parla, o meglio mi ascolta, sono io che gli parlo, gli dico cosa va e cosa non va, cosa penso, cosa vorrei fare. E’ diventato parte della mia vita. Gli sono così affezionata che mi dà fastidio se si siede qualcun altro e prende la copertina rossa di pile che tengo pronta per le ginocchia lagnose.
Il viale del tramonto è un progetto? Sento scatenarsi la voce inorridita di chi mi accusa di pessimismo, fancazzismo: Non reagisci! Fai, briga. Una come te!
Ebbene sì, una come me ha il diritto di immalinconirsi, di fare bilanci in perdita, di guardare indietro alle persone che ha lasciato andare, alle opportunità buttate via perché ci sarà tempo poi, adesso no. Dopo.
Racimolo un po’ di energie, mi faccio coinvolgere da amiche in gamba. Lascio a casa il divano, mi metto una sciarpa calda, affronto il freddo e vado in biblioteca al gruppo di lettura. La borsa colma di libri mi pesa sulla spalla. Il cappotto mi dice: abbottonami, ti prenderai un raffreddore, alla tua età. Che stronzo!
Quando arrivo, mi accolgono saluti calorosi e domande su di me e su cosa sto facendo. Dico loro che ho scritto alcuni testi per due blog di racconti e ho fatto anche un podcast.
Ci prendiamo un caffè insieme? Così ci dici tutto!
Accetto volentieri, il caffè ha proprietà terapeutiche miracolose. Non è la caffeina, non è l’aroma, è lo scambiarsi racconti, novità, nuove esperienze, ancora magiche.
Questo è sicuramente un progetto.
Con tristezza devo ammettere che in una parte mi sono identificata. Sono io, quella sempre di corsa che si divide tra il resto della famiglia, il lavoro sempre più pesante e gli obiettivi personali da raggiungere, per non morire dentro. Le energie si riducono cerchi di canalizzarle in ogni impegno che hai preso, ma si riducono e pensi che prima o poi ti abbandoneranno. Esiste un solo imperativo: dare, dare, dare, con la consapevolezza che prima o poi non riceverai, perché la vita è così, chi c’è c’è nel momento in cui hai bisogno altrimenti resti sola, ancorata ad un’unica idea che ti tormenta, quella di non essere riuscita a viverla completamente questa vita.
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