(Di dove sei? Che lavoro fai?)

di Laura Perez

Posso passare ore a sentire la stessa canzone, ore a fissarmi il collo del piede che ancora deve migliorare, ore a decidere di scrivere per non dovere poi mai cominciare.
Sono le ore in cui spero di non essere di nuovo depressa, di non essere più un’adolescente pseudo bulimica, di non essere quella che sa troppo e che per questo è sempre sprecata e alla fine non può fare niente.
Sono le ore in cui mi guardo allo specchio e rispondo alle domande facili che non so gestire, così faccio le prove per sembrare grande, semplice e sicura. Quando mi chiedono: sei di Roma? (perché si vede subito che non sono di questo mondo giusto?), la mia prima risposta è sì certo sono nata al San Camillo. Credo che i racconti terrifici che mia madre ogni tanto tira fuori quando vuole parlare della mia venuta al mondo abbiano fatto sì che io riconosca come casa lo stanzone schifoso dove uno spropositato numero di donne stanche e sudate dovevano condividere l’esperienza della maternità tra finestre rotte e pipistrelli volanti. Questa ovviamente è la versione di Anna Maria, mia madre. Mio padre invece, il Dottor Perez, amava soffermarsi sul fatto che io sputassi in ogni dove il latte che mia madre piangente cercava di non darmi, a suo dire, così da poter subito passare al tanto più moderno biberon che lasciava anche un bello spazio di distanza tra madre e figlia. C’era poi la versione dello zio Prete, Don Nilo, quello che aveva deciso che mi sarei chiamata Caterina e che, fino alla fin del suo stare qui su questo mondo, aveva continuato a pensare che quello fosse il mio unico nome possibile. Diceva, ma credo lo dicesse perché manipolato dai sogni di gloria di Vittorio mio padre, che ero figlia della via Francigena e della filosofia, e guarda caso appena nata ero anche piena di bolle, quindi sicuramente le assonanze con la santa erano inconfutabili. Vittorio, mio padre, nel suo essere antisociale decise però di risolvere le sue magagne tramite me, sfruttando tutte le amicizie più o meno porporate dello zio Don Nilo per darmi un degno battesimo, la sua rinascita. Di quel giorno a San Pietro quindi mio padre lamentava il fatto che non ci fosse il Papa ad assolvere le mie abluzioni cattoliche, peccato però che stridesse un po’ con la mia residenza nelle case occupate di via Pian Due Torri alla Magliana. Questo è l’inizio di un curriculum che non ho e che non so scrivere.
Queste sono le basi di una vita che mi porta continuamente altrove ma mi lascia da sola seduta davanti alla televisione aspettando che arrivi il mio momento solo perché sono stata battezzata a San Pietro, anche se nelle foto del battesimo non ci sono perché mi avevano dimenticata nel porte-enfant. Quindi io mi chiamo, mi chiamano, in tanti modi, ma non so Laura da dove sia uscito fuori, mi immagino in tanti modi ma non ho neanche una foto che possa giustificarmi.
Negli anni e, adesso, forse sono più quelli passati di quelli che mancano, ho continuato ad aspettare che qualcuno si accorgesse che ancora rimango da sola al sole sul sagrato di San Pietro aspettando il mio momento per la foto ricordo. Ovviamente oltre a non avere una storia scritta non ho neanche una foto di rappresentanza. Il mio amichetto Tiziano (nel mondo di noi bambine adulte ci sono amichetti e amoracci, niente di serio perché la vita dei grandi con le parole intere non ci è permessa) continua a dirmi di scrivere (anche se io non potrei perché alla Magliana queste cose non si fanno), dice di provare a darmi questa possibilità che è un lavoro vero, mi giura e anzi lui dice a tutti che io sono un’artista, il suo monaco blasfemo, la sua veggente preferita e la più meritevole di celebrità tra i matti che finora ha conosciuto e come dice lui io per lavoro ne vedo tanti lo sai. C’ho messo quarantasei anni a decidere di mandare in giro questa letterina. L’ho deciso perché per la prima volta in vita mia comincio a pensare che anche io vorrei esistere. Che vorrei saper rispondere a chi mi chiede come mi chiamo con un nome proprio normale comprensibile e rassicurante anche per me.
Ora ovviamente vorrei averlo un curriculum bello come quello di Santa Caterina da Siena, mi piacerebbe avere delle foto fatte apposta perché io esisto e mi serve farmi vedere.
Così come nei tanti anni di danza mi sarebbe piaciuto poterli mostrare i miei piedi interrotti che erano troppo storti per camminare e troppo normali per essere almeno diversa. Non so combattere, non so decidere, l’unica cosa che ho fatto in questi anni è stata aspettare.
Ho aspettato quando troppo tardi mi sono iscritta in conservatorio, ho aspettato quando non finivo mai di laurearmi in lettere e sto aspettando adesso che suono uno strumento che non ho studiato e scrivo paginette per un lavoro che non so se saprò mai fare.
Che lavoro faccio?
Mi hanno pubblicato, io scrivo. Non è vero. Però questo nel mio immaginario da psicotica normale mi chiede il mio passato: sistema tutto e diventa reale.
Me lo chiedono tutti quei libri che mi scioccavano la testa, che mio padre accumulava per insicurezza e nostalgia, che mi hanno accompagnato nei pomeriggi passati in casa a sentire le canzoni brutte al walkman e che ancora oggi mi salvano e mi approvano. Io alla fine sono Socrate nascosto dall’Enciclopedia del cucito, sono i libri brutti della collana economica per bambini e le pile di Tv Sorrisi e Canzoni in camera mia. Tutto dentro di me cerca un luogo, una nascita, una dignità di sopravvivenza, nonostante Anna Maria lo abbia buttato quel tutto, quando Vittorio è morto, affogato ma finalmente felice.
Adesso inizia un’altra attesa, l’attesa che questa storia diventi vera perché come diceva Sergio, un mio povero amore amaro, Laura basta devi pubblicare lo devono sapere tutti che scrivi, mentre in un bar del Pigneto a Roma, io mi assolvevo a penna storta e lui non capiva perché non volessi esistere. Ora io come al solito me ne sto qui seduta tra i miei topi e le mie parole ad ascoltare i passi della gente del mondo che mi cammina sulla testa. Stavolta però sono truccata, pettinata e ho un bellissimo paio di scarpe da tango col tacco, pure troppo alto, che vorrei far vedere a tutti, mentre scendo le scale del mio personalissimo Festival, ma come al solito non so davvero dove sia la porta antipanico.