di Angela Migliore

Sono morta un giorno di fine novembre. Da poco avevo spento quaranta candeline, ero triste per la fine di un amore bugiardo che mi aveva lasciata delusa di me e degli altri, niente capelli bianchi, giusto qualche accenno argenteo poco più su degli occhi.
Non mi ero accorta del cambiamento nel mio corpo. Ero stanca e camminavo a fatica.
Tutta colpa del troppo lavoro, l’umore marcava il fisico. “Sei depressa” aveva detto la dottoressa, “le analisi vanno bene, prova a prendere qualcosa per aiutarti: del miele e pappa reale, vedrai che andrà meglio”.
Era difficile accettare di essere sola, dopo una lunga relazione, che mi aveva dato solo false certezze: sei amata, sei libera, hai il controllo di tutta la tua vita. Fino al giorno in cui mi sono resa conto di essere sola sul serio. Lui non c’era più o forse non c’era mai stato. L’avevo adagiato dietro le mie certezze per così tanto tempo che sembrava un amore reale, un amore fatto di attese e incontri pendolari nel weekend, dove ci si rincorreva tra chilometri ad amarsi con la promessa che presto sarebbe stato diverso, bastava aspettare il trasferimento. Invece l’amore aveva preso altre strade, strade sotterranee che si intrufolavano tra quelle tracciate e le facevano deviare. Quando mi accorsi di tutto quello che era successo nel frattempo, era troppo tardi. Mi era rimasta solo l’evidenza di una foto rubata sui social e qualche carta regalo strappata nei ricordi. Il dolore, sordo, era arrivato parecchio dopo, quando era passato lo stordimento dei primi giorni. Un dolore che mi perseguitava, dall’inguine coinvolgeva la gamba destra fino alla caviglia.
Andavo avanti con un anti infiammatorio. Avanti a lavorare, a spostare pesi, ad alzarmi presto la mattina per aprire il laboratorio di restauro, senza capire cosa mi stava succedendo.
Poi era diventato impossibile non vedere il dolore al basso ventre e il sangue, costante. Tutti i miei sensi comunicavano con la paura e mi obbligarono a sentire.
C’era qualcosa di profondo che arrivava da dentro, una sensazione sgradevole, un presentimento. Ero diventata un piccolo pezzo da aggiustare insieme agli altri che stavano in attesa di essere riparati nel mio laboratorio.
Giacevo su un lettino gelido di un ambulatorio, nel silenzio dell’attesa e del verdetto finale. L’ecografo tac che aveva usato il ginecologo, aveva visto qualcosa che era già in fase avanzata, con due mosse aveva capito che era già troppo tardi e io, povera stupida, non me n’ero accorta.
Mi sentivo una bambina. Dal buio intorno a me si fecero strada due parole: trascurata e sola. Mi sentivo fragile anche se non volevo ammetterlo.
L’operazione doveva essere fatta d’urgenza.
Il gelo di quel posto ormai mi era entrato dentro, pensai che arrivare alla fine dovesse essere una sensazione molto simile a quella. Quando una piccola parte ghiacciata, grande come un seme si ingrandisce in fretta e arriva fino al cuore facendolo smettere di battere. Il medico si era scusato della caldaia rotta proprio quel giorno e io tremavo.
Aveva detto che non c’era tempo da perdere e che forse avrebbe dovuto togliere tutto. Quel tutto, detto così senza specificare era rimasto sospeso nell’aria per un po’. Senza il coraggio di chiedere una spiegazione, avevo forzato il mio sguardo attraverso la finestra aperta nel buio della periferia di Roma, in cerca di un’altra finestra illuminata, magari appena visibile in lontananza, come facevo da bambina, ipnotizzata dagli occhi delle case che mostravano la vita. Cercavo una speranza.
Ma stavolta non c’era nulla. Il buio fitto era calato in fretta.
Fino a che punto avrebbe dovuto togliere?
Avrebbe fatto il possibile per salvarmi ma dovevo sacrificare una parte di me. La mia sorpresa per la notizia si era trasformata in ostinazione, volevo restare integra e quella mutilazione annunciata era una violenza che proprio non potevo accettare. Non dopo quello che era successo. Sono giovane e non ho perso nulla. Devo solo ricominciare. Mi sciolsi in pianti interminabili.
Il giorno dell’operazione, prima di addormentarmi, mi rimase impressa una donna che usciva dalla sala operatoria mentre arrivavo. Durante la notte il cuore del suo bambino aveva smesso di battere e il lieto evento si era trasformato in una tragedia. Ci eravamo incrociate mentre ci trasportavano nelle lettighe, lei usciva ad affrontare il dramma con i familiari che l’aspettavano fuori, io entravo, sapendo che qualunque fosse stato l’esito, sarei stata sola.
Un figlio? Ci pensai per la prima volta o forse era la seconda, visto che ero stata innamorata e l’avevo desiderato allora. Era tornato quel pensiero, sapendo che non avrei più potuto averne, se fosse andata male l’operazione. Ma lo scacciai.
“Sei sveglia? L’operazione è andata bene, abbiamo tolto il necessario. Ora aspettiamo la biopsia e decideremo il resto”. Quelle parole avevano anestetizzato il dolore e per un po’ anche la paura.
Restai dai miei zii per potermi riprendere: per un giorno e una notte intera pensai solo a riposarmi come mi aveva detto il chirurgo. La notte successiva mi svegliai di colpo, ero in preda a una sorta di post ubriacatura. Il mobilio e il pavimento si muovevano, riuscii a stento ad arrivare in bagno con la febbre a 38, la nausea e il mal di testa.
Un dubbio: l’antibiotico che mi avevano somministrato a fine operazione non lo conoscevo e non l’avevo mai provato prima. Cercandolo su Google appresi che per me, che sono allergica alla penicillina e derivati, era un veleno. Me ne avevano somministrato una fiala. L’effetto non era stato immediato, aveva atteso ventiquattro ore prima di manifestarsi.
La scampai, non so come riuscii a reagire e a smaltirlo. Di veleni ce ne sono tanti, mi disse una persona una volta: “Ci sono quelli che ci somministrano gli altri e quelli che produciamo da soli, entrambi ci fanno ammalare”. Una frase che sembrava scontata e farneticante allo stesso tempo, ma che capii col tempo.
Fui costretta a tornare a casa mia per un’urgenza che i miei genitori non riuscivano a gestire. Malgrado avessi tanti punti di sutura e dovessi restare a letto come mi avevano raccomandato, mi misi in piedi e poi in macchina ad accorrere.
Quei punti, che si dovevano chiudere, continuarono a sanguinare a lungo e per troppo tempo. Il farmacista non voleva darmi i farmaci senza ricetta, io urlavo che era urgente e rischiavo di morire dissanguata. Non vedevo più bene, qualcuno mi aveva raccontato che dopo i quarant’anni era normale, da un giorno all’altro succede, ci si invecchia, si cambia. Il mio problema però era un altro e non potevo spiegarlo.
In un momento di fragilità era tornato il desiderio di avere un figlio, se fossi uscita da tutto quel dolore forse sì, stavolta.
Quando gli altri cominciavano ad andare in spiaggia, io restavo chiusa in casa per un’infiammazione che non voleva proprio passare, andava fatta un’indagine più approfondita. Avrei voluto andare al mare, godermi il calore del sole, ma stavo troppo male.
Dalla seconda operazione in anestesia totale, non riuscivo a riprendermi. Avevo dolori fortissimi, non potevo piegarmi e riprendere il lavoro. Un lavoro che era già tanto duro in condizioni normali, in quello stato era diventato impossibile da continuare. Ero tesa e aggressiva con tutti, probabilmente agli occhi degli altri sembravo in salute, carina e scattante. Avevo iniziato a curare di più il mio aspetto truccandomi, cosa che non avevo mai fatto prima. Non mi sentivo abbastanza bella, cercavo di darmi forza rimandando di me un’immagine perfetta, in apparenza, cercavo gli occhi della gente.
I miei genitori avevano reagito a quella malattia in maniera diversa, eppure simile. Mia madre continuava a dire, a chi chiedeva di me, che non era niente di grave, abituata a nascondere debolezze da anni, e che non aveva ben capito cosa avessi avuto. Mio padre, in più di un’occasione, raccontava ai vicini e ai parenti di quella vicenda, come fosse l’ennesima disgrazia che gli era capitata e quanto fosse sfortunato lui a dover subire tutto questo.
Entrambi, piombati a casa mia, litigarono tra loro per tutto il tempo e rimproverarono me. Quando finalmente se ne tornarono a casa loro, pensando che fossi un’ingrata che non apprezzava il loro aiuto, avrei voluto essere orfana. Li vedevo allontanarsi in macchina gesticolando per l’ennesimo litigio. Non era certo una liberazione, sarebbero tornati a tormentarmi, a provare a gestire la mia vita, tanto ero la loro figlia prima di tutto, anche prima di me. Pensai che avrei dovuto farcela da sola, altrimenti sarei rimasta intrappolata nella malattia per sempre.
“Quello che potevo fare l’ho fatto”, aveva detto il dottore. “Devi metterci tanta buona volontà perché non bastano le medicine da sole a curarti, se l’infiammazione non passa dovremo togliere l’utero”. Uscii dallo studio cercando di raccogliere quel che c’era rimasto di me: capelli ancora morbidi dell’ultimo passaggio dal parrucchiere e la borsa troppo piena di cose pesanti da portarmi dietro.
L’ostinazione a rimanere completa, integra, c’era ancora.
Mi intrufolai in quella sala d’aspetto, con la scusa di accompagnare una mia amica a fare la terapia. Non c’era più un posto libero per i prossimi sei mesi. Troppo in là per iniziare una terapia nuova. Ero in un angolo, come un cane affamato che spera di trovare una mollica lasciata sul marciapiede di una strada, poi quando ormai ero rassegnata a tornarmene a casa sconfitta, arrivò la telefonata. Qualcuno aveva disdetto.
La terapeuta aveva un gran sorriso e modi bruschi, mi fece raccontare di me e della malattia. Mi disse che dipendeva da me sempre e comunque, che spesso confondiamo l’amore con altri sentimenti e ci condizioniamo per una vita intera. “Comincia a togliere i doveri del pensare quotidiano, poi il resto”. Mi fece sedere comodamente e chiudere gli occhi, poi la sentii bisbigliare qualcosa, armeggiare con le mani intorno a me per qualche minuto, ma senza toccarmi. “Ora ti ho sbloccato, ma devi attendere un po’ in sala d’aspetto prima di andare via, forse ci saranno delle reazioni, devi aspettare e accettarle”. Andai nell’altra stanza e non c’era più nessuno ad attendere, rimasi seduta a riflettere su di me e su come mi sentivo in quel momento, ero serena e feci un gran respiro. Mentre una sua collaboratrice mi chiedeva se avevo bisogno di acqua e mi spiegava dove era il bagno, iniziai a lacrimare. Inizialmente senza emozioni particolari, come se avessi tagliato una cipolla inodore. Mentre parlavo le lacrime aumentavano e arrivarono anche i singhiozzi. Stavolta le emozioni c’erano tutte. Cominciai un percorso fatto di medicine omeopatiche e terapie olistiche. Tutto per ridare equilibrio al mio corpo e alla mia anima, che non volevano saperne di tornare insieme e amarsi ancora. Una terapia lunga e faticosa. Venivano fuori vecchi traumi, capivo che c’erano tante cose che non avevo risolto. Quelle che avevo sepolte dentro di me e non me n’ero accorta. Nascondi, manda via i cattivi pensieri, fai finta di niente, non erano parole mie. Mi avevano inseguito tanto, contro le intemperanze infantili, le ripeteva spesso mia madre ed erano diventate mie. Il buio stavolta cominciava a suggerirmi nuove parole da ripetere con la meditazione, lo studio e l’accettazione di me. Tutto ciò che non ero riuscita ad affrontare stava riemergendo di prepotenza.
La terza operazione mentre il caldo aveva deciso di scoppiare in anticipo, mi diede il colpo di grazia. Stavo già meglio e sembrava finita, ero in preda all’emozione di una rinascita. Affrontai l’ennesimo intervento con l’entusiasmo di una bambina, senza prevederne le conseguenze.
“Solo bruciature e qualche fibroma da togliere”. Avrei potuto evitare, ma non lo feci e la pagai. Il fisico già indebolito per l’insistenza degli interventi e l’intolleranza alle anestesie, mi lasciò ben evidente il risultato finale. Addormentata dalla vita in giù, tutte le funzioni vitali espletate in assenza di sensibilità, di coscienza corporea.
Ero morta a metà. Sembrava, per l’ennesima volta, di tornare indietro.
Da quella morte però, stavolta riuscii a capire, a sentire che c’era una me che gridava da tempo senza avere risposta. Quella parte che si era staccata con violenza mi obbligò a farsi accettare. Ero io, tutta me.
Quello che desideravo veramente era più importante di ogni cosa, nessuno mi avrebbe accettata se non lo facevo prima io.
Un figlio no, stavolta no. Non ero obbligata a desiderarlo per essere completa, l’avevo capito finalmente, malgrado i condizionamenti di anni, le paure, i desideri repressi.
Le finestre luminose della sera erano vicine e sorridevano stavolta.
Mi arrivò un desiderio nuovo, non previsto e lo seguii senza fare domande, senza aspettarmi nulla dagli eventi, comprai il mio primo paio di scarpe da trekking e iniziai a camminare con decisione. A ogni passo, a ogni ramo scansato o inciampo, c’era tutta me che gioiva.